TW: fine vita, lavoro
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Silenzio, lutto, tragedia.
Sentiamo queste parole giornalmente, quasi a normalizzare qualcosa che normale non deve essere.
Se pensiamo che tutto questo non ci riguardi perché lavoriamo in ufficio o abbiamo la fortuna e il privilegio di fare un lavoro stabile, con uno stipendio congruo e degli orari umani facciamo un errore enorme.
Se pensiamo che come persone queer la lotta di classe non ci tanga commettiamo un errore che è anche storico oltre che concettuale.
Quando critichiamo il sistema capitalista usa e getta è proprio a questo che ci riferiamo:
alla normalizzazione di quello che è successo oggi, al fatto che veniamo educatə fin dalla scuola a considerarci precariə, a considerare lo sfruttamento un passaggio fondamentale della nostra vita, perché alla fine “la gavetta è necessaria”.
Viviamo nella costante sindrome di Stoccolma nel ringraziare un sistema che nel darci da mangiare le briciole ci affama.
Quando parliamo di intersezionalità lo facciamo per creare il corto circuito nella stanza dei bottoni, nella inconsapevolezza del fatto che ci riguardi solo ciò che ci tocca direttamente.
Oggi non può esserci silenzio, perché il silenzio è ipocrita, il silenzio è complice.
Oggi facciamo rumore, come altre volte e come continueremo a fare, “fino a che ce ne sarà”.
Nel dolore e nel cordoglio, nello stringerci accanto alle famiglie delle vittime, con le cicatrici che ci portiamo dietro, siamo al fianco di chi chi viene sfruttatə , siamo a fianco di chi lotta.
Non ci illudiamo nel dire che questa debba essere l’ultima volta, perché in questo paese ci sono tre persone al giorno che muoiono di lavoro e muoiono per lavorare, quando lavorano per sopravvivere.
Per questo non saremo complici del risciacquo mediatico di chi si rende conto adesso che il profitto uccide, perché tra una settimana o un mese non cambierà niente, finché il cambiamento non saremo noi.
Continueremo a essere lotta.
Anche in questo caso:
“Se domani non torno, brucia tutto”.